giovedì 24 settembre 2009

IL BACIO DI ANGELA

di Francesco Scipione

Il sonno mi stava lasciando, prendevo mano a mano coscienza, il mondo riappariva. Ma non era completo, non c’era il normale godimento o rodimento da risveglio, era come se tutto fosse impastato, qualcosa non andava. Sapevo bene cos’era, conoscevo quel dolore a memoria. La fitta al fianco era sempre più viva e pulsante e cominciava ad impadronirsi di me. Il dolore alla gamba, la nausea, lo stordimento. Ancora, ancora una volta, pensai, e mi girai a guardare Sandra che dormiva sommessamente, in pace con se stessa, con me, con il mondo. Provai ad alzarmi, ad andare sul divano a guardare la televisione, sperando di trovare qualcosa di talmente palloso da riuscire a dormire di nuovo. Passò un’ora ma la situazione non dava segni di miglioramento, anzi. Provai a fare la doccia, il caldo per un po’ mi diede sollievo, solo per un po’, non abbastanza. Le sei di mattina, erano le sei di mattina e volevo sparire con il mio dolore, cercare un anfratto buio per urlare e piangere non più in silenzio. La testa cominciava a girare per il dolore. Ero al punto di non ritorno. Svegliai Sandra con un bacio e la vidi comprendere subito la situazione. Si alzò di scatto e si vestì di corsa, ma a me quei gesti sembravano lenti come la vestizione di un prete. Scesi le scale lentamente con il fianco che pulsava sempre più violento, senza rispetto, quasi a voler dimostrare chi fosse il più forte.


La macchina era naturalmente il più lontano possibile, dove la sorte aveva dato in dono un parcheggio all’ora in cui tutti rientrano. Camminare diventava penoso, respirare, pensare. Non aspettavo altro che di sentire il Toradol entrare nelle mie vene e spazzare via tutto. Ancora poche centinaia di metri e mi sarei preso la rivincita. Provai a fumare mezza sigaretta per distrarmi, ma la nausea me la fece spengere quasi subito. Sandra guidava e si girava di tanto in tanto a guardarmi, senza parlare, con profondo rispetto allungò una mano a sfiorarmi la gamba. Sa che quando sto male non voglio essere toccato, ma voleva comunque farmi sapere che c’era. Ma io lo sapevo e soffrivo ancora di più.

Arrivai al gabbiotto del triage quasi piegato, con un filo di voce. E la vidi, la faccia rotonda, i capelli a coda, le braccia incrociate sul petto, mentre parlava con i colleghi infermieri. Angela mi riconobbe e mi sorrise, tra il meravigliato e il divertito. Subito premette il bottone di accesso all’astanteria. Le porte automatiche si aprirono con un soffio e l’odore di disinfettante mi accolse in quel girone di dolore multiforme e drammaticamente reale, dove tutti sono gravi, dove tutti stanno male più di te e dove tu stai male più degli altri.

Angela mi accompagnò ad una lettiga, mi fece sdraiare, sparendo subito dopo avermi dato un colpetto rassicurante sulla spalla. Tornò, al mio personalissimo orologio, dopo circa un’ora, ma erano passati solo pochi minuti. In un piccolissimo vassoio di plastica a forma di fagiolo c’era tutto l’occorrente per vincere la mia battaglia: un bibitone di salina da mezzo litro con su scritto “Toradol, Antra, Rilaten”, un ago cannula, un catetere venoso, due provette per il prelievo del sangue, due cerotti e un laccio emostatico. Preparai il braccio destro per la vittoria. L’ago entrò con indicibile grazia, quasi chiedendo permesso, quasi cercando di non disturbare con altro dolore. Dolce e timido come un bacio tra due amanti al primo incontro. Angela sorridendo mi fece sedere nel corridoio fuori dalle sale visita e, passando, buttava un occhio al bibitone in attesa che finisse, in attesa che il mio viso tirato dall’ennesimo dolore si rilassasse. A tre quarti della flebo, il dolore si allentò, ricominciai a ragionare, ad avere fame, a sentirmi vivo. Immaginavo Sandra nella sala d’attesa intenta a leggere un giornale, o a vedere una televisione con il volume troppo basso per essere sentito e troppo alto per stare in silenzio in quella prima mattina di inizio estate. Il sole filtrava dalle vetrate automatiche divelte da qualche paziente deluso. Gli ubriachi e i barboni iniziavano a fare fagotto e a lasciare i loro giacigli notturni. Angela veniva a chiudere la flebo e a togliere l’ago cannula, mentre il medico di turno redigeva un altro pezzo della mia collezione di referti. Battaglia vinta, almeno per ora, fino al prossimo castissimo bacio di Angela alle mie vene.

Disclaimer: questo racconto è proprietà intellettuale dell'autore. Anche se non coperto da diritto d'autore, è frutto del suo ingegno.

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